Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

lunedì 29 agosto 2011

Insulomania




ELBA
“Nei paraggi dell'Isola d'Elba, specialmente avvicinandone da N la parte orientale, si possono riscontrare anomalie magnetiche talvolta sensibili per le bussole”. Già questa avvertenza marinaresca è sufficiente per restituire il misterioso fascino di questa grande isola tirrenica.
L'Elba, a seconda delle prospettive, è la più grande tra le piccole isole italiane o la più piccola tra le grandi isole italiane. Per certo è la terza in ordine di grandezza, con i suoi 223 chilometri quadrati. Raffaello Brignetti, scrittore e marinaio, ne ha romanzato le acque e le rocce, gli abissi e le vette. “Sul versante ora in vista l'isola scende grigia fino al mare; le coste sono di granito: sicché hanno riflessi duri e netti. Sotto le coste - e i fondi, anche sono di granito - il mare è di un verde scintillante; più in là è azzurro cupo: fondi certamente di alghe; e ancora, in alcune pianure sottomarine, c'è rena: altro azzurro”. Figlio del guardiano del faro di Capo Focardo, “una lanterna poligonale su torretta grigia in muratura accanto ad una casa bianca ad un piano con tetto rosso”, ci informa il Portolano, fin da ragazzo ebbe un rapporto intenso con il mare, che doveva attraversare ogni giorno a remi per raggiungere la scuola elementare di Porto Azzurro.
Delle mitiche ricchezze metallifere di Ilva prima, poi Aithalia, che ha una musicale assonanza con quello della Penisola, ci ha lasciato una breve ma incisiva immagine Strabone, uno dei padri della geografia. “Un altro particolare curioso di quest'isola è che le cave, da cui si è estratto il metallo, col tempo si riempiono di nuovo, come dicono avvenga anche a Rodi per le cave di pietra, a Paro per il marmo”. Tre isole mediterranee che da millenni alimentano le industrie e le leggende del Mediterraneo.

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Il racconto completo è pubblicato sul mensile BOLINA n. 289 di Settembre 2011

mercoledì 24 agosto 2011

Il nostro mare quotidiano

Estate di sangue, anche in mare! centinaia gli incidenti, alcuni mortali, da nord a sud, dal Ligure all'Adriatico. Come accade ormai da qualche anno le cronache estive raccontano il sovraffollamento delle spiagge e quello assai più pericoloso delle acque. Pericoloso perché le rotte e le baie sono spesso alla moda e quindi ancor più frequentate, ma soprattutto perché, a dispetto dello slogan mussoliniano, non siamo un popolo di santi, né tanto meno di navigatori. I racconti di queste settimane e le esperienze vissute in mare, insegnano che principalmente i motonauti festivi sono spesso, troppo spesso, poco civili e marinareschi. Qualcuno obietterà che non è il caso di generalizzare, né sull'inciviltà di chi utilizza barche a motore, né sull'esclusione dei velisti da questo giudizio negativo. Ma i fatti e i dati, riportati in questi giorni sui quotidiani, dimostrano inequivocabilmente che gli italiani preferiscono il motore alla vela, in un inquietante rapporto di otto a due. Ciò significa che anche in tempi di crisi, di ambientalismo e vita sana (almeno di facciata), solo due italiani su dieci vanno a vela e, ancora meno, a remi. Non c'è caro benzina o ecologismo che tenga, chi sale in barca preferisce girare la chiavetta dell'accensione e ingranare che non alzare una vela e cazzare. Del resto il solo colpo d'occhio in qualsiasi porto o rimessaggio ci dice subito che motoscafi e gommoni, piccoli e grandi, sono quantitativamente di gran lunga la maggioranza.
Se a questa oggettiva predilezione per vizi e virtù motoristiche, aggiungiamo una diffusa ignoranza delle regole della sicurezza in mare, è facile capire i tragici epiloghi estivi. Neanche le più elementari regole di navigazione vengono rispettate: nel diporto le barche a vela hanno la precedenza su quelle a motore, chi ha la dritta ha la precedenza, tre nodi è la velocità massima nei porti, dieci nodi entro i tre quarti di miglio dalla costa, ecc. Anche perché molti dei marinai della domenica hanno difficoltà a sapere cos'è la dritta, il nodo, il miglio, per non dire poi di luci di via, segnali diurni e notturni. Forse alcuni non sanno neanche distinguere la prua dalla poppa. Diventano perciò poco efficaci le brevi campagne di sensibilizzazione alla sicurezza in mare, gli appelli di comandanti, ammiragli e marinai affermati. La diffusione della cultura marinaresca, requisito teoricamente imprescindibile per una Penisola con ottomila chilometri di costa, richiede ben altro tempo e impegno, attivando la rete di circoli e associazioni, di scuole di ogni genere e grado. Merita comunque di essere rilanciato l'invito di Giovanni Soldini, volto a promuovere l'uso della vela, e aggiungiamo del remo, perché è innegabile che quasi sempre “Chi non usa il motore, conosce meglio il mare”. Ma non solo, chi usa la vela e il remo lascia più facilmente a terra i peggiori vizi di oggi: fretta e arroganza. Senza sottovalutare che, andando in mare per svago, dovremmo cercare un armonico rapporto con la natura, meno consumistico nell'accezione più ampia del termine.
Nel nostro mare quotidiano gli unici rumori sono quelli delle onde e dei venti, quelli delle prue mosse da vele e remi. Acque in cui poter nuotare tranquillamente, in cui poter navigare in armonia con gli elementi naturali, rimanendo incantati dal volo di gabbiani, sterne o berte, dalle evoluzioni dei delfini, dal placido andare delle tartarughe.

mercoledì 10 agosto 2011

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


I miei viaggi si nutrono anche di parole altrui, di storie che disvelano mondi nuovi, culture diverse, oggi paradossalmente ancor più difficili da osservare perché sommerse dalla globalizzazione. Perciò prima di partire cerco un fedele compagno, un libro capace di raccontare qualcosa dei luoghi attraversati, delle genti incontrate.
Andando nelle isole dello Ionio ho scelto “Le catene del mare” (2008. Edizioni e/o; pp 280, € 18) di Ioanna Karistiani, un libro che descrive la Grecia di oggi e più in particolare una delle sue antiche genìe, quella dei marinai. E' il protagonista, il comandante Mitsos Avgustìs a presentarsi a nome di tutto l'equipaggio: “il mio paese è il mare, la lingua ufficiale lo swell, la religione di stato una buona bestemmia e la moneta ufficiale gli insulti”, ma attenzione “guai a chi snobba la Madonna e san Nicola, detesto quelli che non temono la morte”. Quella raccontata dalla Karistiani non è una storia di “pirati dei Caraibi”, ma un'avventura epica ambientata su un mercantile dei giorni nostri, con un equipaggio di greci, russi e rumeni che si tengono stretto il faticoso lavoro in tempi di crisi, nomadi “canaglie della fuga”. Del resto, come scrive l'autrice, il “romanzo è nato dai racconti dei marinai delle isole di Andros, Cefalonia, Tinos, Corfù e della città di Chania”. La storia è quella di un comandante che naviga da oltre cinquant'anni e che non ha alcuna intenzione di lasciare il comando dell'amatissimo cargo Athos III, “trentottomila tonnellate, opera viva nera, opera morta rossa, abitanti venti, un villaggio di maschi non riportato su nessuna cartina”. Mitsos è incatenato dallo swell, “il mare mi vuole per sé e io desidero navigare per sempre”.
A questo punto merita un breve inciso la parola swell, che nel libro compare decine di volte e che dà anche il titolo all'edizione inglese. Swell non c'è nui vocabolari italiani e nemmeno nella versione nostrana di Wikipedia. In quella inglese invece troviamo una precisa descrizione del significato oceanografico che, in maniera molto sintetica, potremmo tradurre con “onda lunga”, un moto ondoso che non è causato da un vento locale, quello che i marinai mediterranei chiamano “mare morto”. Ma lo swell raccontato dalla Karistiani è innanzitutto un piacere, che può però diventare una malattia, uno swell che “penetrava nel corpo e si impadroniva del cervello”.
Se in mare il comandante Avgustìs riusciva ad affrontare burrasche e avarie anche ad occhi chiusi, perché ormai a bordo “vedeva con l'olfatto, con l'udito e con il tatto”, a terra la sua vita era un disastro, sia quella famigliare che quella con Litsa, amante di gioventù. In quest'oceano di solitudini Mitsos ha la sicura compagnia solo di Maritsa, “gatto bianco vetusto come un danzatore, le zampette come ballerine rosa, la coda simile all'asta vibrante di un equilibrista sospeso a mezz'aria”, e del cuoco di bordo Siakandaris, più premuroso di una moglie, che lo aiuterà anche ad evitare di trasformare l'ultimo sbarco in un naufragio.
Grazie a queste pagine anche passeggiando lungo le rive della mia Grecia, quella che d'estate indossa “i semi e le bucce dei cocomero, la sua corona e i suoi diamanti”, ho potuto sentire il richiamo dell'alto mare, ascoltando lo swell che ammalia i marinai.