Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

venerdì 23 dicembre 2011

Biblioteca di mare e di costa



E' in libreria la rivista Lettera Internazionale (n.109, 2011), completamente dedicata al Mare Adriatico.
Crocevia Adriatico: Botta, Cassano, Farinelli, Garzia, Godelli, Guagnini, Jančar, Kiš, Pressburger, Scianatico
Geopolitica delle emozioni: Andrić, Bavčar, Fiori, Matvejević, Pahor, Roić, Serino, Tomizza
Sguardi tra le sponde: Bazzocchi, Bruno, Culi, Gjurcinova, Heinichen, Martino, Romano, Roth


Tessere

Mollo gli ormeggi, della vela, della parola.
Le acque e le arie sono note, per quanto possano esserle quelle adriatiche, ai tempi di Google Earth. Sì, perché navigare e scrivere hanno molte difficoltà comuni, ma possono disvelare sempre infiniti orizzonti. Disvelare! eccola qua la prima affinità inaspettata, il primo annodarsi di vela e parola. Adesso non mi interessa seguirne a ritroso la rotta etimologica; devo pensare a cime, scotte e drizze, a randa, fiocco e timone. Anche perché a bordo non ho la connessione internet, sono libero almeno per qualche giorno, e il posto dei vocabolari è occupato dai portolani.
Lascio il porto di Ravenna sotto un cielo stellato d'agosto. Una leggera brezza di Scirocco riempie l'unica vela di prua aperta. Con la barca appena inclinata navigo tra le due lunghissime dighe foranee. Prolungano il canale Candiano fino al mare aperto, creando un cordone ombelicale che lega la città alla madre, alle materne acque adriatiche. Già a poche miglia dalla costa sono immerso in un buio antico, in cui la luce dei pianeti si riflette sulle acque mosse appena dalla bava. E' la stessa luccicante oscurità della notte di Galla Placidia; allo zenit della cupola imperiale splende da millenni una croce latina, sopra di noi il Triangolo estivo, segnato da: Vega, Deneb e Altair.
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Intanto a poppa si intravede ancora il fiammeggiare delle raffinerie ravennati, prometeico emblema novecentesco. Il “Deserto rosso” appare molto più lontano delle quindici miglia che mi separano dalla terraferma, dei cinquant'anni trascorsi dall’Italia descritta da Michelangelo Antonioni. La forza incandescente di quel sogno industriale, un simbolo di quegli anni che apre la narrazione filmica, sembra oggi una fiammella cimiteriale, ricordo di un’età breve se commisurata sulla scala del tempo millenario adriatico.
Lo Scirocco rinforza, sull’acqua il primo spumeggiare delle onde dice che il vento supera dieci nodi. Riduco la randa; manovra complessa su una piccola barca quando si naviga da soli, ancor più di notte. La fatica vale la tranquillità che segue. I pensieri ritornano alla volta musiva e a quel leone di San Marco che immagino nell’angolo di sudest. Dovrò tornarci ancora nella scintillante grotta di Galla Placidia, per togliermi questa curiosità. Se il mare non è una frontiera ma un varco, uno spazio acqueo libero da confini economici e nazionali, allora in Adriatico la porta è una sola ed è aperta proprio a sudest. Di lì sono usciti romani, veneziani e austriaci, di lì sono entrati greci, bizantini, ottomani. L’ingresso si apre o si chiude a seconda di umori, interessi, circostanze della storia; lì rimane comunque, nel disegno più grande della natura.
Nella carta di bordo, dove ho disegnato la rotta per Parenzo, il segmento di graffite per 55° che attraversa il braccio di mare interseca decine di altre rotte, cancellature, punti e annotazioni; tracce di altrettante navigazioni. Settanta miglia separano Ravenna dalla penisola che sta dall’altra parte del mare.
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Negli anni, per me, la traversata nautica o narrativa, sotto un cielo limpido estivo o nuvoloso autunnale, spinto da arie tiepide primaverili o pungenti invernali, è un rito laico, un’eterna celebrazione di scoperta.
Tessere rotte, sulle acque e sulle carte. Tessere racconti, delle rive e delle genti.
Solo i tempi lunghi, fatti di gestualità e fatica, l’immersione sensoriale vissuta nell’incedere delle stagioni, possono rivelare qualcosa di questo seno mediterraneo, insieme marino e materno.
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