Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

lunedì 17 ottobre 2011

Il nostro mare quotidiano

Quando nel marzo 2006 incominciai a lavorare a questo progetto, l'economia sembrava aver ritrovato il suo passo migliore, dopo la battuta d'arresto del 2001. Crescita infinita ed euforia finanziaria erano paradigmi imprescindibili per qualsiasi azione politica. In quella temperie consumistica l'idea dei beni comuni sembrava definitivamente tramontata nell'orizzonte occidentale. Anche la proprietà statale, che è cosa diversa dai beni comuni, scontava l'assedio feroce di quella privata. Una situazione, insieme economica e psicologica, che rendeva il mare e le rive paesaggi ad elevato rischio d'appropriazione indebita.
Lungo le coste mediterranee la pressione antropica, dopo aver sconvolto gli equilibri ambientali, manifestava e manifesta con determinazione la volontà di ridurre il libero accesso di tutti, a vantaggio di pochi. Spiagge, falesie e banchine venivano e vengono continuamente recintate, con il beneplacito o il silenzio-assenso delle istituzioni.
Poi, in conseguenza al crollo economico-finanziario del 2008, improvvisamente almeno nel dibattito pubblico hanno riguadagnato importanza idee eretiche, quali appunto quella dei beni comuni o della decrescita. Volendo elencare solo alcuni degli avvenimenti essenziali, diversi per approccio e filosofia, di questa lenta ma necessaria evoluzione culturale, basterà ricordare l'enciclica del giugno 2009“Caritas in veritate” di Benedetto XVI, il Premio Nobel dato nell'ottobre del 2009 all'economista dei commons Elinor Ostrom, o la recentissima rivolta planetaria degli indignados. In Italia, fondamentale è stata la battaglia vinta sull'acqua come bene comune, nel referendum del giugno scorso. Numerosissimi gli articoli e libri dedicati all'argomento, tra cui la recensione di Roberto Esposito su La Repubblica di venerdì 14 ottobre 2011, a “Beni comuni. Un manifesto” di Ugo Mattei, appena pubblicato da Laterza.
Un'analisi lucida, argomentata e condivisibile, in cui però evidenzio ancora una volta il mancato inserimento del mare tra i beni comuni, status giustamente riconosciuto a boschi e torrenti, per rimanere nel campo ambientale. Eppure insisto sul fatto che in una Penisola con ottomila chilometri di costa il bene comune per eccellenza è il mare, quello che ostinatamente chiamo il nostro mare quotidiano. Una grande foresta blu che sfiora le nostre città o, per meglio dire, la smisurata periferia costiera sorta negli ultimi cinquant'anni. Un orizzonte condiviso da milioni di italiani, che rende ancora più incredibile ed emblematica la svista, anche da parte di intellettuali che da decenni si battono per ridefinire e rivendicare i beni comuni.
Come è possibile che quell'infinito acqueo non lo si riesca a vedere? Come è possibile negare il libero accesso o addirittura l'affaccio alle coste?
Io al contrario credo che queste sciupate rive urbane possano essere riqualificate, anche sociologicamente ed economicamente, in maniera durevole, non effimera, solo se si riuscirà a correggere questa pericolosa miopia, ripensando il mare come valore condiviso e indivisibile. Il mare deve al più presto entrare nel novero dei beni comuni, terzo imprescindibile vertice di un triangolo costituzionale che non può delinearsi esclusivamente su beni privati e, in minima parte, pubblici. E' questo il disegno proposto da Roberto Esposito per “la trasformazione di un mondo che appare sempre meno nostro”, di un mare che è sempre meno nostro.

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