Racconti di isole, venti, vele, nuoto e remi, oltre a qualche idea sul nostro mare quotidiano - Fabio Fiori

mercoledì 10 agosto 2011

Biblioteca di mare e di costa


“Tutte le tempestose passioni dell'umanità, ... sono trascorse come immagini riflesse in uno specchio, senza lasciare traccia sul misterioso volto del mare”
Joseph Conrad


I miei viaggi si nutrono anche di parole altrui, di storie che disvelano mondi nuovi, culture diverse, oggi paradossalmente ancor più difficili da osservare perché sommerse dalla globalizzazione. Perciò prima di partire cerco un fedele compagno, un libro capace di raccontare qualcosa dei luoghi attraversati, delle genti incontrate.
Andando nelle isole dello Ionio ho scelto “Le catene del mare” (2008. Edizioni e/o; pp 280, € 18) di Ioanna Karistiani, un libro che descrive la Grecia di oggi e più in particolare una delle sue antiche genìe, quella dei marinai. E' il protagonista, il comandante Mitsos Avgustìs a presentarsi a nome di tutto l'equipaggio: “il mio paese è il mare, la lingua ufficiale lo swell, la religione di stato una buona bestemmia e la moneta ufficiale gli insulti”, ma attenzione “guai a chi snobba la Madonna e san Nicola, detesto quelli che non temono la morte”. Quella raccontata dalla Karistiani non è una storia di “pirati dei Caraibi”, ma un'avventura epica ambientata su un mercantile dei giorni nostri, con un equipaggio di greci, russi e rumeni che si tengono stretto il faticoso lavoro in tempi di crisi, nomadi “canaglie della fuga”. Del resto, come scrive l'autrice, il “romanzo è nato dai racconti dei marinai delle isole di Andros, Cefalonia, Tinos, Corfù e della città di Chania”. La storia è quella di un comandante che naviga da oltre cinquant'anni e che non ha alcuna intenzione di lasciare il comando dell'amatissimo cargo Athos III, “trentottomila tonnellate, opera viva nera, opera morta rossa, abitanti venti, un villaggio di maschi non riportato su nessuna cartina”. Mitsos è incatenato dallo swell, “il mare mi vuole per sé e io desidero navigare per sempre”.
A questo punto merita un breve inciso la parola swell, che nel libro compare decine di volte e che dà anche il titolo all'edizione inglese. Swell non c'è nui vocabolari italiani e nemmeno nella versione nostrana di Wikipedia. In quella inglese invece troviamo una precisa descrizione del significato oceanografico che, in maniera molto sintetica, potremmo tradurre con “onda lunga”, un moto ondoso che non è causato da un vento locale, quello che i marinai mediterranei chiamano “mare morto”. Ma lo swell raccontato dalla Karistiani è innanzitutto un piacere, che può però diventare una malattia, uno swell che “penetrava nel corpo e si impadroniva del cervello”.
Se in mare il comandante Avgustìs riusciva ad affrontare burrasche e avarie anche ad occhi chiusi, perché ormai a bordo “vedeva con l'olfatto, con l'udito e con il tatto”, a terra la sua vita era un disastro, sia quella famigliare che quella con Litsa, amante di gioventù. In quest'oceano di solitudini Mitsos ha la sicura compagnia solo di Maritsa, “gatto bianco vetusto come un danzatore, le zampette come ballerine rosa, la coda simile all'asta vibrante di un equilibrista sospeso a mezz'aria”, e del cuoco di bordo Siakandaris, più premuroso di una moglie, che lo aiuterà anche ad evitare di trasformare l'ultimo sbarco in un naufragio.
Grazie a queste pagine anche passeggiando lungo le rive della mia Grecia, quella che d'estate indossa “i semi e le bucce dei cocomero, la sua corona e i suoi diamanti”, ho potuto sentire il richiamo dell'alto mare, ascoltando lo swell che ammalia i marinai.